L’ORIGINE TEMPLARE DEI d’ALESSANDRO ED IL LORO AVAMPOSTO “FORTILIZIO” IN PESCOLANCIANO, NELL’ALTO MOLISE
Tra i feudatari del Regno di Napoli che capeggiarono un importante insediamento politico-militare ed economico in Molise si annovera l’antica famiglia d’Alessandro, iscritta al seggio di porto in Napoli.
E’ opportuno segnalare che la presenza dei d’Alessandro in Molise risale già dal 1269, all’epoca di Giovanni (Johannes de Alexandro) con l’incarico di “mutuatore d’Isernia” , mentre la tesi della storiografia ufficiale considera l’insediamento essere avvenuto a fine del XVI secolo con l’acquisto del feudo di Pescolanciano. Questa precisazione rafforza l’ipotesi che i d’Alessandro già conoscevano il territorio alto-molisano sin dall’epoca della dominazione sveva, allorquando ancora esistevano pregressi insediamenti templari nel Mezzogiorno d’Italia.
In merito alla partecipazione templare di detta famiglia, è ben nota la secolare tradizione cavalleresca del Casato, la quale iniziò con le Crociate -quando necessitò la difesa dei sacri luoghi dalle incursioni islamiche-, per proseguire nelle epoche di dominazione angioina ed aragonese, e continuare fino al XVIII secolo, periodo di decadenza per i tramontati ideali che vennero rievocati dal poeta-cavaliere Giuseppe d’Alessandro (1656-1715) nella sua opera “Pietra di Paragone”, stampata nel 1711. Tali sentimenti cavallereschi si sono tramandati fino al XIX secolo con la romantica figura del duca Giovanni M. d’Alessandro (1824-1910), nominato “Cavaliere dell’Ordine Costantiniano” ed insignito della “Gran Croce” all’inizio del 1860. Resta, comunque, quale pietra miliare di questa tradizione di famiglia, la citata opera letteraria del duca Giuseppe che, a detta del d’Afflitto “(...) ho inteso a dire da’ nostri vecchi cavalieri, che nelle contese di spada, e del merito di un cavallo, a Lui come ad oracolo si ricorrea”. Quest’autore riferisce in una breve genealogia dell’esistenza di alcuni antenati cavalieri, citandoli nella parte relativa ai “ritratti d’huomini illustri” . Sviluppò, poi, nei cinque libri che compongono il trattato, una serie di tematiche sul cavallo, sugli ordini equestri, le armi e il combattimento, con richiami esoterici.
L’ipotesi dell’origine templare del Casato dei d’Alessandro, comunque, prende - per la precisione - origine dalla figura di due personaggi, vissuti a distanza di pochi anni e conosciuti da diversi araldisti del passato e recenti. Nell’albero genealogico tracciato dal Daugnon viene indicato Guido o Guidone di Alessandro per essere stato investito del titolo di barone di Roccagloriosa sul finire del XII secolo. Tale baronia “(...) in Principato citeriore, in diocesi di Policastro, distante da Salerno miglia 56 circa, e da Napoli 83” , è collocata nel Cilento che allora era terra feudale normanna, passata (1152) per discendenza maschile a Simone figlio di Ruggiero II, discendente da Roberto il Guiscardo.
Il Guido d’Alessandro viene comunque citato nel “Catalogo dei Baroni” del Borrelli, nella rubrica su Rocca Gloriosa , perché figura tra i nobili riuniti dal re normanno Guglielmo II il Buono nel 1187 allo scopo di combattere in Terra Santa nella terza crociata del 1189 (1189-1192). Difatti, in quel tempo Gerusalemme (dopo il disastro di Hattin, ove fu disfatto l’esercito cristiano con la cattura di re Guido) veniva concquistata dai Turchi del Saladino.
Papa Gregorio VIII, pertanto, perorando la liberazione della città dai musulmani, designò e scelse poi alla guida delle schiere cristiane Federico I, detto Barabrossa (che morirà affogato in un fiume della Cilicia nel 1190 durante il viaggio), nonché Filippo II, augusto re di Francia, unitamente a Riccardo Cuor di Leone, re d’Inghilterra.
Per questa difficile impresa furono reclutati circa 600 mila armati. Il Guido-Guidone partecipò, quindi, alla spedizione contro i musulmani personalmente con il seguito di altri tre suoi cavalieri servienti ed uomini armati, come era d’uso per i feudatari presso la monarchia normanna. Al riguardo, il Borrelli riporta quanto scoperto con la sua ricerca:
“(...)Petrus Bivianus sicut dixit tenet villanos VII et cum augmento obtulit militem I. Petrus Guaymarii sicut dixit et inventum est tenet villanos VII et cum augmento otulit militem I. Lando sicut dixit tenet villanos VIII et cum augmento obtulit militem I. (...) Raul de Rocca villanos III. Guido de Alexandro villanos III. Gualterius Rusticus villanum I.”
C’è, comunque, da dire che secondo le usanze militari dell’epoca, non tutti i cavalieri erano però obbligati al servizio di guerra, quale corrispettivo del feudo avuto in concessione dal re. Inoltre, i feudatari vassalli avevano facoltà a loro volta di farsi sostituire da un certo numero di altri cavalieri in proporzione all’entità della baronia. Cosa che non avvenne per Guido d’Alessandro. Fu presa Tolemaide, occupata nel 1191 Accon (S.Giovanni d’Acri), ma anche l’esito di questa crociata fu fallimentare e si concluse con una pace diplomatica tra il Saladino e Riccardo. Gerusalemme rimase ai turchi, seppur fu consentito ai cristiani il pellegrinaggio senz’armi a Gerusalemme, nonché il possesso della fascia costiera tra Giaffa e Tiro.
Rientrato nel Regno, ormai dominato dagli Svevi di re Fedrico II (1194-98), viene segnalata la presenza del Guidone d’Alessandro in terra di “Apulia”, nell’incarico di “precettore di Lama” , ricevendo mandato nel 1213, insieme ad altri precettori, dal Capitolo della provincia di Apulia-Terra di Lavoro dell’Ordine del Tempio (presieduto da Pietro de Ays, magister domus templari e riunitosi presso la chiesa Ognissanti di Trani), di occuparsi di una controversia riguardante dei terreni spettanti alla domus di Foggia .
L’altro cavaliere rossocrociato, nipote del Guidone, è Lando de Alexandro citato , insieme al frate Giovanni di Lorenzo, oblato; a Giovanni Cono, oblato; e Pietro Crello, con Pietro Sonello e Nicola de Mattia , quale componente della comunità templare della chiesa di S.Paterniano di Ceprano(Terra di Lavoro), alla quale Carlo I d’Angiò nel 1269 aveva concesso l’esenzione dal divieto imposto ai cittadini di Ceprano di entrare nel regno di Sicilia.
La tradizione templare familiare permane nelle attività finanziarie gestite con profitto da taluni esponenti dei d’Alessandro partenopei. Nicola d’Alessandro fu, tra il 1282-1285, mutuatore, noto per il prestito di once dieci mila al suo re Carlo I d’Angiò. Simile gestione del credito da parte di vari esponenti della famiglia(tra cui il citato Giovanni di Pietro Cola, mutuatore in Isernia), nel corso del XIII sec. sotto la regnanza angioina, favorì anche l’impiego di altri familiari nell’erario. Antonio di Francesco, ad esempio, fu erario della città di Napoli (1311), mentre il fratello Alessandro fu maestro di Teologia e scelse di indossare gli abiti religiosi diventando Generale dei frati Minori (1310), come avvenne per il cugino frate Giovanni de Alessandro abate del convento di San Giovanni a Carbonara in Napoli(1339). Anche Giovanni II(Giovannello), come il padre Antonio, fu erario di Napoli (1338), carica questa assegnata anche al di lui figlio Antonio II (1343) dalla regina Giovanna I. Giovanni III di Antonio, Bar. di Casanova, fu invece gran Camerario di Calabria (1415) poi Maresciallo del Regno e giustiziere degli Scolari. Nel XV secolo, invece, tornò in auge l’attività banchiera nella figura del mercante-banchiere (1443-1455) Severo d’Alessandro, il quale giunse ad iscrivere la famiglia, in data 21 maggio 1460, tra il patriziato del seggio di Porto. Lo stesso, successivamente, ottenne l’iscrizione al seggio di Montagna fin oltre il suo decesso (1467). Il banco di Severo fu poi portato avanti da uno dei suoi figli, Antonello d’Alessandro, sul finire del 1400.
Durante questi secoli le alternate generazioni di esponenti del Casato risultano al servizio dei sovrani Angioini ed Aragonesi e ricevono importanti incarichi politici in tutto il Regno, dalla Puglia alla Calabria, pur mantenedo la loro residenza principale nel menzionato sedile di Napoli con fissa dimora. Proprio in questo arco di tempo,tra l’altro, i d’Alessandro da “militi di spada” passarono ad occupare ruoli di prestigio nelle amministrazioni giudiziarie (diverse nomine a presidente della Regia Camera della Sommaria come fu per Pietro Nicola, Jacobuccio I, Marco etc.), o in quelle fiscali (i numerosi erari eletti in varie città) ed amministrative (luogotenenti e governatori, quali Baldassarre, Gio.Lorenzo nel 1514, Salvatore).
Questo passaggio dallo status di “cavalieri di spada” a quelli di “toga” conferì alla famiglia numerosi privilegi ed acquisizioni di varie baronie, da cui trassero origine i rispettivi rami della Castellina sul Biferno in Molise (prima metà del XV secolo), Marigliano (metà del XV secolo) e Cardito (fine XV) nel napoletano o in Calabria e Puglia.
Da ciò derivò che le insegne araldiche dei d’Alessandro, inquartate in uno scudo a punta “di oro al leone di rosso attraversato da una banda di nero caricata di tre stelle del campo a sei raggi ciascuna” , trovarono collocazione su portali di palazzi e castelli, nonché all’interno di chiese e conventi dei vari feudi e nella capitale del Regno. Accadde, così, che l’immagine del leone rampante comparve anche nelle terre di S.Maria dei Vignali e Pescolanciano, a far data dal 1576 .
La scelta di comprare dagli Eboli detto feudo, collocato in altra provincia lontana da Napoli, non fu certo casuale. Tale compravendita, infatti, si verificò in un periodo in cui i d’Alessandro tornarono ad impugnare le “antiche spade” per sostenere il partito “angioino”, schierato con le truppe francesi del Lautrec, contro i nuovi conquistatori spagnoli, disposti a far introdurre nel Regno napoletano l’Uffizio della Santa Inquisizione . Nei tumulti che ne seguirono in quel territorio, sia nel 1527-29 come nel 1547, i d’Alessandro (alcuni furono esponenti del ramo di Cardito come Jacobuccio II, Giacomo, Giulio, Fabrizio così ,pure, vi parteciparono Gio.Lorenzo e Baldassarre sempre del ceppo napoletano) si trovarono schierati per combattere a fianco delle famiglie Carafa (con Cola allora barone di Pescolanciano) ed Eboli (con Vincenzo, dalla cui progenie discenderà Aurelia con la quale fu conclusa la compravendita del feudo di Pescolanciano)contro gli spagnoli, subendo, infine, le condanne inflitte dal re Carlo V d’Asburgo.
L’anonima acquisizione del feudo di Pescolanciano ad opera di Rita Baldassarre, moglie di Gio.Francesco unicogenito del ribelle Gio.Lorenzo, significò, così, la rinascita prestigiosa del Casato, desideroso di riscattare l’infame condanna e la sofferta decadenza.
Il feudo di Pescolanciano con suo “fortilitio” presentava, tra l’altro, molte caratteristiche geo-morfologiche e paesaggistiche analoghe a quelle della prima baronia di Roccasicura nel Cilento. Entrambe le costruzioni risultavano collocate su un alto rilievo roccioso (Pescolanciano: a 800 metri dal livello del mare; Roccasicura: a quasi 1.000), dominante strategicamente un insieme di percorsi tratturali, elementi nevralgici per lo sviluppo e sfruttamento di una prosperosa attività economica, quale la pastorizia. Si aggiunga, poi, che l’avamposto di Pescolanciano si ergeva lungo una rete viaria che collegava paesi abruzzesi -passando per Isernia- agli sbocchi portuali pugliesi, soddisfacendo varie esigenze di movimento. L’intera rete con i suoi tratturi e tratturelli non costituiva sentiero esclusivo per i soli pastori, bensì via di comunicazione per viandanti o pellegrini diretti in Oriente o verso importanti santuari come S.Michele nel Gargano. Se le diverse taverne, dislocate lungo tali percorsi, costituirono luoghi di sosta e ristoro, il castello di Pescolanciano con il suo insediamento costituì per tutto il territorio struttura garante di protezione, assistenza e rispetto delle norme regie. Inoltre, le rocche dei due paesi succitati subirono rimaneggiamenti edilizi e consolidamenti, a fini difensivi, dei diversi corpi originali di fabbrica formanti il fortilizio (si pensi alla torre mastio con chiesetta e cisterna del nucleo originario di Pescolanciano ). Lavori questi fatti commissionare a costruttori che di certo conoscevano “l’opus gallicum” per le tecniche di costruzioni impiegate, l’uso di materiale (quale il reimpiego di elementi lapidei e materiali di riciclo, quali colonne) e delle malte. Analogie strutturali, quali l’uso di muri a scarpa o dell’impiego del camminamento di ronda poggiante su beccatelli, le feritoie difensive, sono riscontrabili in Roccagloriosa e Pescolanciano e ricordano una tipologia di fortificazione ,alquanto semplice ed attenta alle normative regie volute per le fortificazioni del Mezzogiorno d’Italia, tipica di certi avamposti cavallereschi del Tempio ed Ospedaliero. Quest’ultimo Ordine, tra l’altro, fu presente a Roccagloriosa presso le commende di S. Giacomo e S. Giovanni in Fonte (attuale chiesa parrocchiale), così come la presenza di cavalieri Ospedalieri di S.Giovanni di Gerusalemme fu cospicua presso i d’Alessandro a partire dal XVI secolo fino a tutto il XVIII .
Questa corposa componente di cavalieri gerosolimitani nella famiglia ducale d’Alessandro, supportata da diversi richiami architettonici (quali croce marmorea di S.Giovanni di Gerusalemme presente all’interno ed esterno del castello, o gli stemmi araldici della famiglia accollati dalla stessa croce malitense dentro e fuori la cappella ducale, chiusa questa da una cancellata in ferro con croce gerosolimitana), può far ritenere il castello di Pescolanciano avamposto “Ospedaliero”, con rimembranze templari, nell’alto Molise. Detto maniero rappresenta, pertanto, una traccia di questa continuità storica che vide la famiglia d’Alessandro spostarsi dall’Ordine dei rossocrociati a quello di S.Giovanni, a seguito dei ben noti fatti sulla soppressione del Tempio. Venuto meno tale Ordine nel XIV secolo, la continuità dei suoi ideali e principi religiosi-cavallereschi fu garantita dalla partecipazione, professa o meno, dei discendenti di Casa d’Alessandro alle regole dell’Ordine Ospedaliero nei secoli successivi.
E’ il caso del duca Fabio Junior d’Alessandro(1626/8-1676) che volle introdurre nel suo feudo il culto sacro per il guerriero martire S.Alessandro, parte delle cui reliquie giunsero a Pescolanciano nel 1656 per essere conservate in un’urna di marmo . Per volontà testamentaria dello stesso feudatario , il rituale prevedeva una pomposa funzione da celebrarsi secondo un calendario liturgico, stabilito per i discendenti di Casa d’Alessandro. La cerimonia si svolgeva, inizialmente nella chiesa, poi cappella ducale, innanzi al sacro dipinto su legno della “Vergine del Pellegrino”, raffigurante la “Vergine con bambino poppante con S.Michele Arcangelo - alla sua destra - col medioevale pennoncello sul capo ed una bilancia nelle mani e con S.Francesco d’Assisi - alla sua sinistra”.
Questo cerimoniale, nonché la presenza di reliquie (di cui la tradizione vuole l’esistenza di un reliquario d’argento, contenente 31 reliquie di tutti i Santi onorati nell’anno con le rispettive autentiche, ed altri oggetti sacri sopravvissuti al tempo fino all’epoca del ceramologo duca Pasquale d’Alessandro) riportano alla memoria quell’usanza, alquanto diffusa presso i cavalieri del Tempio, del “culto della reliquia” . Fu una semplice e comune costumanza religiosa del tempo, o una precisa reminescenza di una tradizionale “professio”, abbandonata per un periodo e ripristinata per perdurare nel tempo secondo specifiche disposizioni testamentarie. Perché, poi,la scelta del culto cadde proprio ed esclusivamente sul martire guerriero, trucidato dai pagani?
Esistono, comunque, precise testimonianze sul culto dei templari per le reliquie, per le quali diversi militi si immolarono nella difesa dagli “infedeli” di quei luoghi ove si conservavano importanti ricordi della religione cristiana (come avvenne per la croce di Cristo presso S.Giovanni d’Acri, caduta sotto i colpi del Saladino). Inoltre, gli stessi cavalieri furono ingaggiati per scortare quel numero esorbitante di resti dei santi martiri e dei loro oggetti personali, portandoli in salvo verso le città europee cristiane (come avvenne per la Sacra Sindone). Queste reliquie, poi, venivano celebrate nei rispettivi paesi con funzioni religiose solenni.
Sembra che proprio il culto della reliquia costituisca una prova di quella continuità di ideali tra i due Ordini.Il Minucci e il Sardi , a tal proposito, hanno scritto “(...) in più casi gli Ospitalieri di S.Giovanni abbiano mantenuto a lungo sostanzialmente intatto il patrimonio di reliquie, ereditato dai Templari” che dalla città di Accon giunsero a Malta dopo la caduta del Tempio.
Infine, altro aspetto da considerare per la ricerca in questione fu quello comune a molti personaggi del Casato d’Alessandro che si contraddistinsero nella società per aver saputo assolvere e rispettare le diverse regole religiose, stabilite nel De Laude per il modus vivendi del “guerriero-cristiano”. L’assistenza, la misericordia, la carità al prossimo, ad esempio, furono prerogative di vita testimoniate di Gualtiero, barone del Regno (1291), del teologo Alessandro (1310), di Giovanni III, maresciallo del Regno di Napoli sotto la regina Giovanna II (1417), e soprattutto di Gio.Battista d’Alessandro della Castellina. Accennando a costui, scrive il Capaccio ”(...) che per virtù ed integrità, tra i suoi e tra gli altri è degnissimo di tutte le lodi, che convengono ad un pregiato cavaliere”. Fra le opere pie, a lui attribuite, la più rilevante fu la partecipazione alla fondazione del Pio Monte della Misericordia in Napoli nel 1601, insieme ad altri sei nobili cavalieri napoletani . Continuò egli per tutta la vita a”(...) prestar pietosi e costanti servigi agl’infermi dell’ospedale degli Incurabili, ove il suo nome era venerato e benedetto”.
SIMBOLOGIE E SEGRETI DEL CASTELLO D’ALESSANDRO DI PESCOLANCIANO
A cura di Stefano Busti dei d’Alessandro
Ricerche archivi e documentazione: dott.ssa Patrizia Sivori
E’ possibile che un’antichissima casata sia riuscita a portare e a tramandarsi, nel corso dei secoli, quelle tradizioni che una scomunica aveva cercato di cancellare?
Anno 1996: iniziano le rilevazioni di una serie di simboli presenti sulla facciata del castello dei d’Alessandro di Pescolanciano. In breve tempo si recensiscono più di quindici simboli: colombe, colline con croci, soli, occhi, pesci ed altri più difficili da decifrare. Alcuni visibili solo in certe ore del giorno, quando la luce, divenendo crepuscolare, mette meglio in evidenza i graffiti. Altri, ormai nascosti dall’edera o poco visibili sono in attesa di essere ancora messi in rilievo.
La loro presenza ha comunque dato adito ad una serie di supposizioni, e nessuna di queste per ora prevale sulle altre.
Questo perché, purtroppo, su questi simboli non ci sono certezze neanche sulla loro possibile datazione, poiché mille anni di storia hanno lasciato traccia sulle pietre del castello mischiando le carte ad ogni passaggio.
Non ci sono documenti antichi che possono rilevare quantomeno una data da cui attestare una datazione.
Per poter escludere determinate ipotesi e restringere quindi il più possibile il campo, mi posso però avvalere di un lavoro di contro deduzione: passo quindi a enunciare le ipotesi finora più accreditate.
L’ipotesi del materiale di risulta
I simboli visibili sulla facciata sono in realtà provenienti da materiale recuperato e riutilizzato di qualche monumento più antico. Come spesso accadde fino al 1600, si era soliti nel costruire un nuovo edificio, riutilizzare pietre e materiale edile di edifici antichi o andati in rovina. Segnaliamo che non lontano dal castello, vi è il sito sannita di Pietrabbondante, dove si attesta la presenza di un anfiteatro e di due templi pagani.
Probabilmente, dato che i simboli sulle pietre ricordano piuttosto una tradizione paleocristiana (la colomba, il pesce, che era il simbolo di cristo tra i primi cristiani e la collina con la croce), è presumibile che le pietre dove sono incisi i simboli provengano da una chiesa paleocristiana.
L’ipotesi del materiale di risulta è suffragata inoltre dal fatto che i simboli sono scolpiti su determinate pietre diverse da quelle utilizzate per la facciata.
E’inoltre riconoscibile una colomba che si trova rovesciata, il che fa pensare ad un rimontaggio casuale dei blocchi di pietra.
Contro ipotesi:
Se fosse materiale di risulta dovremmo trovare, nella zona intorno al castello, altri segni simili a quelli riscontrati sulla facciata.
Non sono state trovate, al momento, pietre con graffiti simili a quelle presenti sul castello in un raggio di 10 chilometri da Pescolanciano. Sono state ritrovate delle pietre, di tipo simile a quelle del castello, ad Isernia, sotto le fondamenta della cattedrale, dove sono effettivamente presenti resti di un tempio romano, ma queste pietre non riportano alcun simbolo.
Per quanto riguarda i simboli rovesciati, uno di essi è appoggiato su un fianco in maniera tale che, se fosse quel disegno messo dritto, il blocco di pietra su cui poggia risulterebbe verticale, in maniera assolutamente anomala rispetto agli altri. Viene dunque da pensare che il disegno sia stato intenzionalmente appoggiato a 180° rispetto al normale.
L’ipotesi della funzione dei simboli come conta del lavoro delle maestranze nella fase di costruzione del castello
I simboli sono in realtà segni lasciati dagli scalpellini ad indicare fin dove ognuno di loro ha lavorato per quantificare la paga. Era consuetudine tra i capomastri edili, marcare le pietre con un segno, al fine di poter segnalare esattamente fin dove finiva il proprio lavoro e dove era iniziato quello di un altro. Spesso infatti le maestranze erano pagate a seconda del numero di blocchi di pietra che apponevano. Lasciando un segno specifico per ciascuno, era poi possibile quantificare il lavoro fatto.
Contro deduzione:
Il tipo di segni lasciati non sono affatto semplici. Abbiamo occhi, sole, colombe, colline con croci, pesci. Perché mai uno scalpellino analfabeta avrebbe dovuto rifarsi a dei simboli sicuramente complessi per segnare solamente fino a dove era arrivato col suo lavoro? Non poteva semplicemente graffiare la pietra con una linea o fare un incavo?
Una spiegazione del genere dovrebbe fare sì che tutto il castello sia cosparso di simboli. Si potrebbe affermare che i simboli sono presenti solo su una parte, in quanto questa venne rifatta nel 1600 e solo in quell’occasione venne utilizzato dalle maestranze questo tipo di conta. Tale consuetudine è però piuttosto medioevale che del 1600.
Per il fatto che la facciata in questione è legata ai lavori di ristrutturazione effettuati dal Duca Fabio d’Alessandro, non prenderemo in considerazione l’ipotesi che i simboli siano antecedenti a questi lavori, in quanto è presumibile che quella parte di facciata non esistesse proprio prima dei lavori.
L’ipotesi di simbologie antecedenti alla venuta dei d’Alessandro resta comunque ancora in piedi, in quanto non vi è certezza su fin dove venne ritoccato il castello.
Lo studio sui personaggi storici dei d’Alessandro come spunto di ricerca.
Ci sono stati vari proprietari del castello che, sia per la storia di cui sono stati testimoni che per quella che si portavano alle spalle, possono essere sospettati di essere gli artefici e gli ideatori dei simboli.
Questa ipotesi, che vengo a suggerire, cerca piuttosto di spiegare la creazione di suddetti simboli partendo dagli indizi emersi dallo studio della vita dei discendenti della casata dei d’Alessandro.
Ossia, dai documenti a noi lasciati, emergono delle figure della casata che potevano avere interesse o desiderio di lasciare dei segni visibili sulla facciata.
Per il momento mi sono concentrato su tre persone, vissute tutte in periodi differenti anche se non lontani tra loro.
Per poter però tracciare il profilo dei sospettati, è necessario fare un escursus sulle notizie riguardanti i d’Alessandro, riconducibili in un modo o nell’altro alla storia di questi segni. Partendo dalle notizie sui d’Alessandro templari, seguendo un filo sottilissimo che si dipana fino all’epoca dei sospettati, tenterò di inquadrare la storia che può aver ispirato chi ha scolpito i simboli e quella che ha portato all’acquisto del castello, in quanto, ambedue sono strettamente legate tra loro.
I primi Templari della casata d’Alessandro
Il possibile ispiratore
Iniziamo dalle certezze: dei d’Alessandro sappiamo sicuramente che ebbero nella propria storia esponenti appartenuti all’ordine dei Cavalieri Templari. Guidone d’Alessandro è, infatti, il primo membro templare della casata di cui si hanno tracce scritte: egli è, prima del 1187, barone di Roccagloriosa, cittadina del Cilento e punto considerato da sempre strategico, fin dalle sue antichissime origini greche e che non a caso sarà, nell’arco dei secoli, più volte assediata, conquistata e considerata, soprattutto nel 1100, strategicamente rilevante per la posizione di controllo contro le incursioni saracene. Guidone, feudatario del re normanno Guglielmo II il Buono, vive nella fortezza che sovrasta proprio la cittadina di Roccagloriosa.
E in quel periodo giungono, da Gerusalemme, le voci della disfatta dei Regni Cristiani: Saladino, il condottiero saraceno, era penetrato, a capo delle proprie truppe, nei suddetti regni, conquistando, una dopo l’altra, le città fortificate dei cristiani, fino alla conquista di Gerusalemme. Malgrado la città (che all’epoca aveva raggiunto una popolazione di 30.000 abitanti) decida di arrendersi, evitando così un massacro, la riconquista saracena lascia comunque una scia di sangue. Dalla prima crociata in poi, ossia 122 anni prima, il conflitto era stato costellato di massacri, ritorsioni e terrore, alimentati da ambedue le parti in lotta, come ad esempio la cattura di Re Guido di Lusignano, nella battaglia di Hattin, e il massacro delle guarnigioni templari e dei cavalieri Gerosolimitani (1187), sempre molto temuti dai saraceni per le loro capacità guerresche.
La sconfitta aveva permesso ai saraceni di impossessarsi della reliquia della Santa Croce. La disfatta aveva suscitato un forte moto di emozione in tutta la cristianità e aveva spinto i principali re cristiani a partecipare alla guerra. Di questo sentimento si fa paladino Riccardo Cuor di Leone che, dopo la sfortunata e accidentale morte del Barbarossa nella fase di avvicinamento alla Terrasanta con il suo esercito, aveva preso il comando delle operazioni, impegnando tutti i suoi beni per la causa della Crociata.
La partenza di Guidone d’Alessandro in Terrasanta.
Ancora prima Guglielmo II, il re normanno, dopo aver fatto voto d’intervento in Terrasanta ed aver convocato a Napoli i suoi baroni, aveva mandato un primo contingente per nave nel 1187 . Anche Guidone si imbarca e lo fa accompagnato da tre inservienti ; la sua è una scelta spontanea, in quanto le leggi normanne davano la possibilità, ai baroni, di farsi sostituire, nella spedizione, da un altro cavaliere.
Lo scopo di questa partenza era quello di aiutare i cristiani rimasti a difendere le ultime città non ancora in mano a Saladino, in attesa della spedizione vera e propria.
Nei piani di Guglielmo II c’era anche il passaggio, nel proprio regno, del costituendo esercito crociato, che doveva essere imbarcato sulle navi in partenza per la Terrasanta. Giunti nel 1187 in quei luoghi, i Normanni portano il primo riconforto ai cristiani che si erano radunati su Tiro, l’ultima fortezza cristiana che ancora resiste all’armata di Saladino. Questi portano soprattutto agli assediati notizie sui preparativi sull’invio di un’armata crociata. In una situazione disperata come quella che si era venuta a creare, il contigente normanno, assai esiguo per la verità, da nuovo impulso a resistere , ma subisce grosse perdite. La situazione è drammatica anche a causa della disparità delle forze ma Tiro riesce comunque a resistere e le armate di Saladino si ritirano.
Gulielmo II muore di lì a poco, lasciando la gestione del passaggio dei crociati in Sicilia nelle mani di Tancredi, che tuttavia non seguì i propositi del padre: la partecipazione dei Normanni alla crociata resta, anche per questa volta, marginale. I normanni partiti per la Terrasanta nella spedizione del 1187 sono stati forse 300, per cui, non appena sarà chiaro che il regno Normanno non invierà i tanto attesi rinforzi, si mettono al servizio dei cristiani per partecipare all’assedio di San Giovanni d’Acri mentre l’esercito crociato ancora è in viaggio per la Terrasanta . Riccardo Cuor di Leone raggiungerà gli assedianti solo nel 1189, portando macchine da guerra e nuovo entusiasmo.
Non sappiamo se Guidone d’Alessandro fosse stato un Templare prima di partecipare alla crociata o se esista qualche altro personaggio della casata che abbia avuto a che fare con questo ordine, o addirittura abbia partecipato alle crociate precedenti; sappiamo solo che Roccagloriosa, che risulta normanna solo dal 1152, non è citata come sede templare della zona, dove, ai tempi di Ruggero II, risultano appartenenti all’ordine solo Caggiano e Sala Consilina : passata a Simone, figlio di Ruggero II, per discendenza da Roberto il Guiscardo, la cittadina venne infine accorpata alla diocesi di Policastro e affidata al barone Guido d’Alessandro. Visto che Roccagloriosa non era templare, il suo avvicinamento all’ordine potrebbe essere stato proprio in Terrasanta. Tra l’altro i Normanni, ormai ridotti in pochi, si erano accorpati con i cristiani del luogo, e quindi anche con i Templari. Questa scelta è stata sicuramente molto coraggiosa, visto che l’esercito di Saladino non faceva prigionieri tra i templari: si limitava a mozzare il capo di ogni templare catturato.
Per quanto riguarda la possibilità di trovare altri Templari tra gli antenati di Guidone d’Alessandro, dobbiamo ricordare che gli appartenenti a quest’ordine cavalleresco privilegiarono, inizialmente nel meridione, le sedi costiere della Puglia, che resero questa regione la più importante, per numero di insediamenti templari, del Sud Italia. Per ora possiamo solo affermare che a quel tempo Roccagloriosa era una roccaforte costiera, importante per la sua posizione di prima linea contro le scorribande dei saraceni e che il suo comando doveva esser affidato a comandanti esperti e di valore.
Il rientro in Italia di Guido d’Alessandro
Quando Guidone rientra in Italia, non trova più il regno Normanno ma Federico II di Svevia.
Per i Templari in rientro dalla Terrasanta, si era già trovata una soluzione: Goffredo, figlio di Stefano e maestro delle domus templari in Puglia, voleva dare una sistemazione ai Templari normanni rientrati in patria . Per tale ragione aveva richiesto a Federico II un feudo, ben sapendo che nel lungo periodo di lontananza, essi avevano perduto i loro diritti su quello che detenevano prima della partenza. Federico II concede Lama Ciprandi, nella terra di Apulia, il 29 aprile 1196 per meriti acquisiti.
Guidone lo ritroviamo citato, nel 1213, come precettore della domus.
E’ forse quindi il 1196 la data di rientro di Guido d’Alessandro in Italia?
Facendo un rapido calcolo, Guidone d’Alessandro dovrebbe essere rimasto almeno tra gli otto e i dieci anni in Terrasanta, visto che nel frattempo si erano succeduti al trono normanno sia Tancredi che Federico II. Possiamo calcolare, tenendo anche conto del periodo in cui visse suo figlio, che al tempo della partenza per le crociate, Guido doveva avere all’incirca tra i venti e i venticinque anni.
La funzione delle domus templari nella Puglia.
Ritengo necessario, al fine di far capire quanto Guido d’Alessandro si sia legato all’ordine templare e quanto quindi abbia vissuto fino in fondo anche dopo il suo rientro in Italia le regole dell’ordine, trattare del funzionamento delle domus templari della Puglia e delle loro funzioni.
Nella Puglia settentrionale e nel Molise prevalevano gli insediamenti interni nelle fertili terre della Capitanata, le cui domus erano dedite alla coltivazione e alla raccolta dei cereali e dei legumi che venivano imbarcati per la Terra Santa. La maggior parte di questi viveri venivano donati dalle domus molisane ai presidi della Puglia settentrionale e giungevano al porto di Manfredonia, passando dai tratturi.
Dal Quaternus de excadenciis apprendiamo che la proprietà fondiaria templare della Capitanata alla metà del XIII secolo era costituita da almeno 37 domus, 68 casalini, 24 terrae, 10 vinee, 10 peciae, 7 orti, 7 vineali, 3 saline, 2 uliveti, 1 tenimentum, 1 desertinum ed 1 terricella. Queste proprietà producevano grano, orzo, olio, vino e mandorle per un reddito annuo pari a 5,7 kg d’oro.
Secondo i calcoli, ogni capitanata soddisfaceva ai fabbisogni di 300 templari e più della metà della produzione era inviata in Terrasanta. Possiamo allora immaginare quanto flusso di merci passasse dai tratturi partendo dal Molise fino agli imbarchi dei porti della terra di Apulia.
Possiamo anche immaginare quanto la vita di Guido d’Alessandro si sia modificata: prima è Barone di una roccaforte, poi per alcuni anni vive negli accampamenti crociati e nelle fortezze cristiane, rischiando la propria vita in una lotta continua e inizialmente impari, infine lo ritroviamo a gestire una domus templare, allo scopo di continuare il sogno crociato contro i saraceni.
Nel 1216 Lama Ciprandi venne persa dai Templari in una controversia con il monastero di Valle Vorlarla, in quanto come ex-feudo di Rogerio Ebriaco, sarebbe dovuta passare ai Benedettini e non ai Templari. I templari si erano inoltre impossessati di alcune terre che non erano di loro spettanza. Questa perdita si inseriva, però, in un periodo di confische e sequestri ai danni dei Templari, volute da Federico II. Sotto questo re altre domus templari vennero perse e cedute ai benedettini.
I templari di Lama Ciprandi si dovrebbero essere trasferiti presumibilmente a Barletta.
Si interrompono qui le ultime notizie su Guido d’Alessandro.
La discendenza di Guido d’Alessandro: continuano i rapporti con i templari.
Angelo: con Angelo d’Alessandro, figlio di Guido, è attestata per la prima volta la presenza dei d’Alessandro a Napoli.
Angelo divenne Luogotenente del Regno, al tempo passato sotto i d’Angiò . A partire da lui, i d’Alessandro sono segnalati nel sedile di Porto, sotto lo stemma del pescatore Orione . I d’Angiò forse grazie anche ad Angelo d’Alessandro, iniziano a vedere di buon occhio i Templari, che potranno riappropriarsi, dal 1275 in poi, delle domus perse (Lama Ciprandi rientrò nelle mani Templari nel 1285). Nello stesso periodo i Templari della domus di Barletta ricevettero in feudo l’intero paese di Versentino.
Lando: nipote di Guidone è anch’esso crociato e Templare, e viene citato nella comunità templare della chiesa di San Paterniano di Ceprano nel 1269: questa chiesa aveva funzione di ospitalità verso i pellegrini che passavano per la cittadina che, infatti, si trovava in una posizione strategica. Non sappiamo se Lando era presente a Ceprano quando la cittadina fu al centro dell’incontro tra Innocenzo IV e il “penitente” Manfredi nel 1254 . Si dice che Lando d’Alessandro partecipò alle crociate, per cui, combinando i dati, si deve presumere che questi partecipò alla sesta crociata, del 1248-1254, di Luigi IX contro l’Egitto, che però si concluse con una disastrosa ritirata.
Allo stesso periodo si deve far risalire la nascita di un altro ramo dei d’Alessandro, dalle parti di Marigliano, in provincia di Napoli. Questo ramo è caratterizzato, nello stemma, da un cavallo bucefalo.
Gli Angioini e la scomunica dei templari.
Nel 1307 le sorti dei templari vengono segnate.
Quando verrà emanata la condanna di eresia nei confronti dei Templari, nel 1307 da parte di Filippo il Bello, i nuovi signori del Sud Italia erano i d’Angiò del Regno di Sicilia; avendo fino ad allora favorito i Templari, ne ordinarono immediatamente il sequestro dei beni, tanto che il Regno di Sicilia fu uno degli stati del Sud Italia in cui i beni dei Templari vennero in maniera più consistente ereditati o dalla Curia o dagli Ospitalieri. Per tale ragione, la maggior parte degli appartenenti all’Ordine Dei Cavalieri del Tempio decisero di passare a quello gerosolimitano, poi divenuto dei Cavalieri di Malta, mantenendo così i privilegi fino ad allora acquisiti.
Il legame di parentela con Filippo il Bello aveva giocato un ruolo importante in questa decisione: Carlo II diede infatti ordine ai giustizieri delle varie province del suo regno di procedere all’imprigionamento dei Templari e al sequestro dei loro beni. Nella Puglia meridionale venne anche istituito un tribunale dell’Inquisizione e a farne le spese furono soprattutto le domus di Barletta e di Brindisi. Non è casuale lo sviluppo di un ramo dei d’Alessandro pugliesi insediatisi tra la nobiltà di Barletta, prendendo come insegne il cavallo nero bucefalo.
A questo punto viene da chiedersi se la casata dei d’Alessandro subì la stessa sorte dei templari.
I discendenti di Guidone, avevano avuto la strada in discesa nella carriera esattoriale; i Templari rientrati dalla Terrasanta, infatti, sia per la loro onestà che per l’oculata gestione delle finanze dimostrata nell’amministrazione delle numerosissime donazioni e lasciti a favore del loro ordine, avevano avuto posti soprattutto nel controllo e nello sviluppo delle esazioni; tra i discendenti della casata ritroviamo inoltre , anche Giovanni d’Alessandro, in qualità di Mutuatore d’Isernia , una carica, questa, legata alla gestione delle finanze. Viene da pensare, quindi, che il legame con l’ordine templare sia rimasto solido.
I d’Alessandro avevano assunto un ruolo di primaria importanza, con una serie di personaggi illustri che svolgevano attività soprattutto di ambasciatori e tesorieri: il figlio di Angelo, Carlo, era stato Giustiziere di Calabria e i suoi discendenti avevano avuto il titolo di Erario della città di Napoli, titolo che mantennero dal 1310 al 1350 circa.
Non abbiamo, purtroppo, altre notizie che attestino un legame con l’Ordine Templare. Vista la situazione, se legami c’erano, sicuramente venivano tenuti segreti. Possiamo solo costatare che sia prima della scomunica che dopo, il loro ruolo pare essere comunque derivato da quelle che erano sempre state le funzioni spettanti ai templari, senza però che venissero in alcun modo colpiti dalla scomunica. Probabilmente i d’Alessandro e lo stesso sviluppo della casata sembrerebbe indicare che, al tempo della scomunica, si fossero già allontanati dall’Ordine. Tra l’altro nessun d’Alessandro al tempo della scomunica risulta esser passato all’ordine dei Gerolosomitani. Un indizio forse, che a quel tempo non ne avevano sentito il bisogno e dunque non dovevano nascondersi. L’entrata in questo ordine, come vedremo , sarà molto più tarda, nel 1574, dopo la sconfitta subita dagli Angioini e l’arrivo del tribunale dell’inquisizione spagnolo.
Forse i discendenti avevano mantenuto le cariche che generalmente erano conferite ai templari, solo per tradizione, senza però avere più alcun contatto visibile col mondo templare. Questo non esclude la possibilità che comunque si siano mantenuti, per lungo tempo, riti e tradizioni templari in famiglia, anche dopo la fine dell’ordine. Bisogna dire, inoltre, che i pericoli legati alla scomunica riguardarono, nel Regno, solo il periodo che va dal 1307 al 1312, dopodichè sono state registrate tracce della presenza templare almeno fino al 1394.
L’alleanza con i d’Angiò
Il 1400-500 vede i d’Alessandro del ramo di Pescolanciano e Cardito ancora più legati ai d’Angiò, con incarichi di “Governatore” e “Maresciallo del Regno” (Giovanni III), “Ambasciatore” presso gli Aragona (Antonio) e vari “Governatori” (Jacobuccio I, Baldassarre, Lorenzo, Salvatore) . Allo studio sono attualmente anche due personaggi secondari della casata d’Alessandro: Severo ed Antonello , banchieri tra il 1443 ed il 1455, grazie anche al beneplacito dei d’Angiò.
Salta all’occhio subito che lo sviluppo della famiglia è legato agli ottimi rapporti che aveva con i d’Angiò. Quando gli Aragonesi, nel 1527, arrivarono per prendere il loro posto, non tutti i d’Alessandro si schierarono con gli Angioini e chi lo fece pagò a caro prezzo la sua fedeltà: Giovanni Lorenzo (padre del capostipite del ramo Pescolanciano) e Baldassarre d’Alessandro prestarono il loro braccio alle truppe del generale Lautrec assieme agli Eboli e ai Carafa e, di conseguenza, Pedro da Toledo, Viceré del Regno, ordinò lo squartamento di Giovanni Lorenzo tramite il tiro dei cavalli contrapposti . La sconfitta degli Angioini portò anche alla confisca di numerose proprietà fondiarie dei diversi nobili filo-francesi secondo l’ordine dello stesso Carlo V.
L’acquisto del feudo di Pescolanciano
La storia dei d’Alessandro a Pescolanciano inizia nell’anno 1576 ed è legata alla sconfitta angioina. La famiglia procede all’acquisto del castello dal barone Andrea d’Eboli o la di lui nipote Aurelia. L’operazione avviene tramite Rita Baldassare, moglie di Gio.Francesco d’Alessandro . Il tutto avviene con una certa fretta, così come il trasferimento di alcuni personaggi della famiglia dei d’Alessandro da Napoli a Pescolanciano nel contado di Molise.
Si può comprendere quanto potesse risultare importante allontanarsi da Napoli e dal tribunale dell’Inquisizione spagnolo, e del perché ci fu una certa fretta, da parte di alcuni componenti della famiglia d’Alessandro. Alcuni d’Alessandro comunque, come Iacobuccio, barone di Cardito, poterono usufruire dell’indulto di Carlo V.
Ma perché venne acquistato proprio il feudo di Pescolanciano?
Proprietaria del castello era, guarda caso, la casata degli Eboli, con la quale la famiglia d’Alessandro aveva combattuto fianco a fianco, al seguito delle truppe francesi del Lautrec, nella guerra contro gli Aragonesi. Inoltre, proprio ai tempi della vendita del feudo di Pescolanciano ai d’Alessandro, la più alta carica dei Cavalieri dell’Ordine di Malta, ossia Gran Maestro dell’Ordine, era tenuta da Gregorio Eboli, che fu poi sepolto alla Valletta.
Nel 1574 Camillo d’Alessandro viene nominato Cavaliere dell’Ordine di Malta e da quel momento fino ai giorni d’oggi i d’Alessandro fanno parte dell’Ordine dei Cavalieri di Malta.
Possiamo quindi ipotizzare che ci sia stato un forte legame tra la famiglia Eboli e i d’Alessandro, al punto che gli Eboli cercarono di aiutare i d’Alessandro sia con la vendita del feudo di Pescolanciano, sia favorendone l’entrata nell’Ordine dei Cavalieri di Malta. D’altra parte gli Eboli e i d’Alessandro avevano combattuto insieme contro gli Aragonesi, condividendone le sorti avverse e la ritorsione di questi ultimi.
Appare chiaro che l’essersi schierati tanto apertamente con i d’Angiò abbia messo in difficoltà una parte della casata d’Alessandro, ma da questi elementi si possono trarre anche una serie di informazioni che, collegate tra loro, forniscono quantomeno una base di partenza per approfondire un aspetto oscuro della famiglia d’Alessandro: la continuità delle tradizioni.
Il ritorno dei neoTemplari?
Il primo sospettato: Fabio d’Alessandro
Con l’acquisto del castello, il duca Fabio d’Alessandro procede ad una serie di lavori , nel 1628. Questi modificarono anche l’aspetto complessivo del castello; vennero infatti accorpati in un unico complesso il mastio, la chiesa e la torre cilindrica Viene spostata l’entrata, viene aggiunto un ponte levatoio al posto della scala retrattile. Il castello cambia la simmetria dell’entrata.
I lavori al ponte levatoio comunque interessarono proprio la parte relativa alla facciata dove si trovano la maggior parte dei simboli citati.
Potrebbe essere stata questa l’occasione per apporre dei simboli sulla facciata?
Altri due indizi legati al ricordo dei templari, non sono anch’essi da sottovalutare:
1: Il duca Fabio si adopererò per restaurare il culto di Sant’Alessandro, martire guerriero del 303 d.c., traslato nella cappella del castello di Pescolanciano nel 1656; fu lui a richiederne il corpo alla Santa Sede e a restaurare il culto secondo l’antico rito (il rito venne ripreso dalle consuetudini medievali). E’ noto che i templari erano molto legati al culto delle reliquie (ed a quello della testa mozzata).
2: Costui, inoltre, si prodigò molto per l’Ordine di Malta. Come per molti Templari che, all’epoca della scomunica, dovettero passare nell’ordine dei Cavalieri dell’Ordine di Malta per evitare la persecuzione, nei desideri di Fabio d’Alessandro potrebbe esserci stato un desiderio di ricollegarsi a quel mondo dimenticato.
Il secondo sospettato: Giuseppe d’Alessandro (1656-1711)
1: Il duca Giuseppe d’Alessandro, figlio di Fabio, è a pieno titolo il secondo sospettato. Infatti nella sua opera “L’Arte del Cavalcare”, cita alcuni personaggi illustri della casata d’Alessandro, facendo espliciti richiami esoterici, relativi ai templari. Cita una simbologia medioevale, che sembra assai simile a quella trovata sulla facciata, nella sua opera “Pietra di paragone”. Si intuisce tra l’altro seguendo le fonti da lui citate, che Giuseppe d’Alessandro era in possesso di documentazioni ormai andate perdute. Spesso fa riferimenti alle crociate e ai prodi cavalieri del tempo .
2: Nei suoi scritti, inoltre, Giuseppe d’Alessandro rimpiange più volte i tempi andati, dei prodi cavalieri e dei tornei, criticando i nuovi costumi dell’epoca, come l’uso della cipria e i nuovi arnesi da guerra come l’archimbugio (da lui definito l’infernetto portatile).
L’ipotesi di segni templari riutilizzati nel 1600.
Questa ipotesi, può essere suffragata dalla simbologia utilizzata. Nella simbologia sulla pietra i templari erano dei veri maestri e nascondevano codici che solo loro potevano decifrare: L’occhio e il sole erano simboli che i templari avevano ripreso in Egitto: l’occhio di Osiride che tutto vede e il sole, ripreso dai miti egizi.
La collina con la croce simboleggiavano l’estremo sacrificio di Gesù, sul monte Golgota, mentre il . pesce era l’antica maniera di indicare Gesù tra i cristiani che fuggivano alle persecuzioni. Questo simbolo compare più volte nelle pietre del castello.
Resta da chiedersi: perché Fabio o Giuseppe d’Alessandro avrebbero lasciato segni simili a quelli usati dai templari?
Al momento non abbiamo ancora alcuna prova che dal periodo templare fino a Giuseppe d’Alessandro, la casata abbia mantenuto in qualche modo qualche collegamento occulto con le tradizioni templari o neotemplari, per cui saremmo portati a sostenere che la simbologia scolpita sul castello, qualora fosse opera del duca Fabio d’Alessandro, sia una reminiscenza del passato, ma di certo, il fatto di scolpire dei segni all’incontrario tradisce più lo sviluppo di un codice che un semplice rito religioso
Questa spiegazione è valida sia se i segni siano opera di Fabio che di Giuseppe.
Il terzo indiziato: Pasquale Maria d’Alessandro (1756-1816)
I motivi che ci fanno pensare a Pasquale Maria d’Alessandro come ad un possibile indiziato, sono i seguenti:
1: Pasquale Maria d’Alessandro fece parte della setta dei “liberi muratori ”, setta massonica che si sviluppò proprio in quei tempi.
2: Il duca Pasquale acconsentì a dare in affitto delle stanze del palazzo ducale di Napoli (pzza s. Ferdinando) per la creazione di un circolo giacobino.
3: Anche Pasquale Maria ritoccò il castello di Pescolanciano, poiché, seguendo la moda del tempo, fece dei lavori per eliminare le merlature e dare al castello l’aspetto di un palazzo ducale, pur sempre arroccato con le tradizionali funzioni difensive e lontano da occhi indiscreti.
4: Tra le sue amicizie più strette si annoverano personaggi come il principe Raimondo de Sangro di San Severo, famoso per la sua capacità di utilizzare delle alchimie in grado di mummificare i corpi e conservare i vasi sanguigni. Famoso anche per aver sviluppato una concezione esoterica legata ai sui esperimenti. Gli scritti tra Pasquale d’Alessandro e il Principe di San Severo non sono ancora stati ristudiati secondo questa chiave di lettura.
5: Nelle ceramiche che il duca Pasquale produceva al castello di Pescolanciano, ci sono dei simboli ricorrenti (la palma ad esempio, proprio legata alla simbologia massone o neotemplare).
6: Una delle quattro logge degli ordini templari si sviluppa a Napoli interessata allo sviluppo delle antiche consuetudini esoteriche , tra cui la leggenda dell’uovo di Virgilio e il suo simbolismo poetico. La tomba del Virgilio si trovava a quel tempo in una delle proprietà del duca Pasquale, che era solito accompagnare visitatori illustri al suo cospetto.
Nel caso i simboli fossero stati messi dal duca Pasquale Maria, di certo la loro interpretazione ci potrebbe ricondurre alle logge massoniche, visto che Pasquale Maria ne era a contatto. I massoni avevano molti simboli simili a quelli usati dall’ ordine templare, anche se a volte avevano significati leggermente diversi. In questo caso la disposizione dei simboli potrebbe essere una parola di passo, ossia un segnale che dava la possibilità ad un massone di riconoscerne un altro.
I simboli: breve spiegazione secondo alcune tradizioni occidentali
Diamo qui di seguito la posizione dei simboli sulla facciata del castello e una spiegazione più dettagliata del simbolo secondo le tradizioni massoniche e templari:
Colomba: (sotto il ponte levatoio 3 metri in basso) è un importante animale simbolico, presente in varie culture con diversi significati: Il carattere pacifico e delicato attribuito a questo uccello (in contrasto col suo reale comportamento) ne ha fatto l’essenza della mitezza e dell’amore e a volte del timore e della loquacità e viene spesso contrapposta al corvo o all’aquila. Nella Bibbia è simbolo della fine del diluvio e segno di pace e di concordia, portando a Noè un rametto d’olivo, mentre nella tradizione cristiana è simbolo dello Spirito Santo che personifica nelle raffigurazioni della Trinità ma rappresenta anche la purezza e la semplicità. Gli scultori medioevali la rappresentavano nelle cattedrali gotiche in associazione all’anima e come simbolo specifico dello Spirito Santo. Nella toponimia templare spesso appaiono i termini “colombera”, “colombaia”, “palombara” con il duplice significato di “luogo dove stanno i colombi” e “edificio posto in luogo elevato”; questo toponimo si trova sempre nelle immediate vicinanze di insediamenti templari, indicando una torre di avvistamento con colombaia; in Terrasanta i Templari appresero infatti dagli Arabi l'uso dei colombi viaggiatori.
Inclusa fra i simboli alchemici, la colomba rappresenta la colorazione bianca della materia prima che si trasforma in pietra filosofale. Nella simbologia massonica rappresenta la regina babilonese Semiramide, il cui nome tradotto significa effettivamente “portatrice di ramo”, ma invertita acquista un’accezione negativa, come simbolo di distruzione. È, inoltre, una costellazione recente, essendo stata inclusa nell’elenco delle costellazioni solo nel 1679.
Occhio: (posizionato 20 metri a destra del ponte levatoio, facciata ovest). Rappresenta la luce e la conoscenza. Nell'iconografia cristiana è simbolo dell'onnipresenza della Santissima Trinità, raffigurato circondato da raggi solari o inserito in un triangolo. Secondo i Templari, che useranno spesso simboli egizi, riprendendoli dai geroglifici con cui vennero a contatto all’epoca delle crociate, fa riferimento all’occhio di Osiride, mentre i Massoni riprendendo la simbologia cristiana della raffigurazione di Dio, come apparirà dopo il 1400 , lo inseriranno più spesso in un triangolo (chiamato delta) incoronato da raggi a significare, come “occhio onnivedente”, la Giustizia, l’onnipotenza e la saggezza del Creatore che compenetra tutti i segreti. Nell'iconografia rinascimentale, infatti, l’occhio compare iscritto in un triangolo, con riferimento alla Trinità. A partire dal XV secolo si definisce e si diffonde un'interpretazione umanistica dei geroglifici egiziani: anche l'occhio, come la mano, è infatti un simbolo che precede di molto l'epoca cristiana.
Sole: (20 metri a destra del ponte levatoio, in basso dell’occhio). Presente in moltissime religioni che lo associano all’idea della divinità che abita nel cielo, nell’iconografia cristiana simboleggia l’immortalità e la resurrezione. Viene ripreso nella simbologia templare perché proveniva dai miti egizi, dove era strettamente legato ad Osiride, con cui spesso si confondeva, e anche per la straordinaria somiglianza con il mistero del Cristo risorto. Nella simbologia alchemica al sole corrisponde lo splendore dell’oro (sole della terra, re dei metalli) , mentre nella simbologia massonica, il sole e la luna sono i due lumi fisici del mondo, a significare che ogni giusto libero muratore e fratello deve cercare la luce della verità sia di giorno che di notte, senza indugiare nelle tenebre dei vizi.
Collina con croce: (in altro a destra 5 metri sopra il ponte levatoio e in alto a destra, 8 metri in altro sullo spigolo del mastio). Potrebbe rappresentare il monte Calvario, traduzione del nome aramaico Golgota, ossia la collina della crocifissione di Cristo: secondo l’Antico Testamento “Quando giunsero al Golgota, che è il centro della terra, l’angelo mostrò a Sem questo luogo. Qui la terra si aprì a forma di croce, e Sem e Melchisedek vi posero la salma di Adamo. Le quattro parti si mossero e racchiusero la salma del nostro progenitore Adamo e l’apertura della terra si richiuse”. Questo luogo fu chiamato “Calvario” giacchè vi fu ucciso il Signore di tutti gli uomini”. Una tradizione medievale riteneva, infatti ,che il Golgota fosse il luogo della sepoltura di Adamo: questo fatto simbolicamente ribadiva il ruolo di Gesù come "nuovo Adamo", fondatore della nuova umanità redenta (cfr. 1 Corinzi 15,21-22). Per questo motivo, nelle rappresentazioni della crocefissione, ai piedi della Croce è spesso raffigurato il teschio di Adamo .
Questo simbolo lo ritroviamo due volte, una volta dritto e una volta rovesciato a 90°. Potrebbe essere anche un calice, o una spada conficcata, anche se l’ipotesi della collina degli ulivi resta la più probabile.
La croce nel cerchio: (posizionato 25 metri in alto a sinistra del ponte levatoio). La croce all’interno di un cerchio, oltre al significato cosmologico, simboleggia anche la divisione dell’anno in quattro parti. La croce a quattro braccia riporta al numero quattro, il più simbolico tra i numeri. Intorno al numero quattro si incontrano credenze in molte culture, anche lontane dal cristianesimo.
La croce nel cerchio, oltre al significato cosmologico, simboleggia anche la divisione dell’anno in quattro parti. Dal punto di vista dell’asse verticale che unisce lo zenit al nadir, la croce ha un rapporto con l’asse del mondo. Spesso veniva a indicare il mondo con Gerusalemme al centro.
Quando Dio creò la terra, prima venne la sua forza e da essa seguì poi da quattro parti la terra come il vento e soffio lieve. E nel centro la sua forza si arrestò e si riposò. E in quel luogo si compirà la redenzione.
La croce, però, contiene anche il centro, quindi il superamento della quadrinomia mediante il raggiungimento dell’origine dei 4 elementi, attraverso il passaggio al numero successivo, il cinque, ovvero alla "quintessenza". La quintessenza simboleggia, quindi, l'elemento puramente immateriale, lo spirito del mondo, dal quale sono stati generati, e separati dal centro mitico, nelle 4 direzioni i 4 elementi (aria, acqua, fuoco, terra). La croce è il simbolo cristiano per eccellenza, ma esiste, come i significati simbolici del numero quattro ad essa strettamente connessi, anche in molte altre civiltà precedenti, o non influenzate da esso. Il significato di ordine è quindi connaturato alla civiltà e all'ordine che l'uomo impone alla natura, elemento comune a tutte i popoli. La Croce inscritta all’interno di un cerchio è una delle rappresentazioni più frequenti delle croci templari.
Pesce: (Spigolo estremo a destra, 50 metri in alto a destra del ponte levatoio). Nella simbologia cristiana antica il pesce rappresenta i cristiani (spesso Cristo è raffigurato come pescatore). Questa interpretazione, secondo i Padri Latini, è dovuta al fatto che il sostantivo pesce in greco si dice, IXTHYC (ichtùs); le lettere di questa parola, disposte verticalmente, formano un acròstico: Iesùs Christòs Theòu Uiòs Sotèr = Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore. Le pitture delle catacombe portano numerose testimonianze sul legame fra il pesce e l'acqua battesimale. Tale legame è anteriore al cristianesimo: nell'arte ebraica l'acqua è rappresentata come pescosa e il pesce significa la risurrezione. il pesce è anche simbolo del pasto eucaristico quando compare insieme al pane; se porta un vascello sul dorso, è simbolo di Cristo e della sua Chiesa; nelle catacombe, oltre al legame con l’acqua battesimale, rappresenta spesso lo stesso Cristo. Nell’arte medievale è interpretato come simbolo della trinità un pescatore leggendario chiamato “Trinacria” che aveva tre corpi ma una sola testa. Nella toponimia templare troviamo spesso i termini “peschiera, piscaria, piscatoria e simili: stagno creato artificialmente per allevare il pesce; a causa dell'alto consumo di pesce da parte dei Templari ogni precettoria, autosufficiente, ne creava una nel caso non ci fossero già quelle naturali; nell’iconografia alchemica, dei pesci in un fiume rappresentano le essenze originarie del sulfphur et mercurius in forma sciolta.
Conclusioni
Si potrebbe essere tentati di affermare che in realtà il legame con determinate consuetudini templari sia continuato nel tempo. Sia perché i d’Alessandro mantengono delle cariche che prima erano affidate ai Templari, poi perché , nel momento in cui non vi è più traccia visibile dell’Ordine, questo viene ricordato da vari personaggi o anche invocato, poi infine perché i simboli di quell’epoca compaiono sul castello.
Si potrebbe anche affermare che i vari indiziati erano solo dei continuatori di una tradizione di cui non abbiamo tracce consistenti tra il 1400 e il 1500 solo a causa dell’erosione del tempo.
Si potrebbe essere tentati di collegare i vari simboli per ottenere un significato, seguendo una logica legata ai simboli egizi o paleocristiani.
La soluzione è forse in due libri scritti da un autore della famiglia d’Alessandro, forse i simboli sono “mot de passe”, per i massoni del duca Pasquale, forse un ricordo dei Carafa, o forse un codice la cui decifrazione ha bisogno ancora del primo indizio.
Di certo c’è che questo è solo il primo passo, anche perché man mano che si approfondisce questa ricerca, altre informazioni correlate stanno dando adito a possibili soluzioni, ma è ancora troppo presto per poter dare una soluzione certa all’enigma dei simboli.